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Topipittori.it – Una capretta ansiosa di precipizi

Ospitiamo oggi un contributo di Elena Iodice, presenza già familiare su questo blog, che ha sviluppato una serie di workshop molto curati e interessanti su Il campanellino d’argento, una leggenda della tradizione sarda riscritta da maria Lai e disegnata da Gioia Marchegiani. Qui li racconta. Buona lettura.

[di Elena Iodice]

Molto spesso mi viene chiesto secondo quali criteri io scelga un artista piuttosto che un altro, un’opera specifica nella spesso copiosa e multiforme attività di questo o quel pittore.

È una domanda che mi imbarazza, che, come dice Margherita, una delle bambine con cui lavoro, mostra agli altri la mia nudità, ciò che tento di nascondere dietro ad un’apparente sicurezza.

Il motivo è che non lo so.

Quando comincio a stendere un progetto, non sono assolutamente certa di quali saranno le direzioni che esso prenderà.

Poi, di solito, accade qualcosa. È un incontro, una scintilla capace di generare il tutto, è quello che definisco il momento 0.

Lo stesso accade con l’arte. C’è sempre un’opera, uno scritto che attira la mia attenzione. Mi piace pensarlo come ad un amo che l’artista lancia aspettando che qualcuno abbocchi.

«Ai bambini capita spesso di raccontare che le opere hanno una voce: alcune strillano, altre bisbigliano, altre ancora appaiono mute, ma fingono perché sono timide e quindi da principio si ritraggono. Non è da tutti arrivare a sentirle, a distinguerle, a riconoscerle, bisogna prima porsi in ascolto e intanto sondarle.»

(Silvia Spadoni, Educare alla fruizione: l’ascolto nella relazione estetica in Museo come territorio di esperienza, edizioni Mambo-Corraini )

Quando, però, si riesce a captare la loro voce allora “l’ascolto si fa visione”, come scriveva Longino, allora si aprono strade, che portano a quel “più in là” non scritto, non immaginato neppure dall’artista.

È il momento in cui ci è data la possibilità di intervenire sull’opera, di completare ciò che l’artista ha iniziato partendo da noi e dalla nostra esperienza.

Fino a qualche anno fa, non conoscevo l’opera di Maria Lai.

Maria Lai, ph. Daniela Zedda, Archivio Maria Lai.

Poi mi arrivò tra le mani un libricino, Ulassai. Da Legarsi alla montagna alla Stazione dell’arte che raccoglieva scritti e interviste fatte all’artista sarda morta da poco. Prima ancora che la sua poetica, è stata il mondo nascosto dietro alle parole a colpirmi.

Ulassai: Da Legarsi alla Montagna alla Stazione dell’arte, AD-Arte Duchamp.

Sono stata per anni in Sardegna: ho percorso le strade meno battute dal turismo di massa grazie agli amici sardi che mi avevano adottata, arrivando a quei paesi dell’interno in cui il tempo sembra davvero sospeso. Ho incrociato gli sguardi indagatori e vagamente sospettosi degli uomini, la dolcezza ferma delle donne fasciate in abiti neri e scialli frangiati. Ho sbirciato dentro le case, visto mani impastare dolci e tessere fili. Ecco, le parole di Maria che per la prima volta leggevo, come piccole madelaines proustiane, mi hanno immediatamente restituito tutto questo.

Gola di Gorropu, fonte web.

Poi, però, mi hanno traghettato più in profondità, mi hanno fatto entrare nella grotta.

Le opere di Maria Lai, per me, sono preghiere. Dischiudono un rapporto profondo con quell’infinito, quei precipizi di cui lei, secondo la definizione datale del padre, era assetata. La sua arte non dà certezze proprio perché come scriveva: «Chi guarda l’opera d’arte cerca sé stesso» e quel confronto, per quanto mi riguarda, non è certo privo di dubbi. Quei fili, quei libri cuciti, quelle azioni collettive che usavano come tele le lavagne, i sassi, i dirupi, i cortili ci prendono davvero per mano, facendoci salire i sentieri impervi su cui conduce la sua capretta, l’animale misterioso capace di camminare sulle orme della fantasia.

Pastorello con capretta su un muro di Ulassai, fonte: web.

Maria Lai, La capretta, Ilisso editore.

È strano, se, come ora, mi trovo a dover raccontare di quanto il lavoro di Maria Lai mi abbia profondamente segnata, non sono le opere singole a segnare i passaggi ma le parole, quasi che i racconti sottesi dalle prime siano più importanti della forma che, di volta in volta, lei gli cuciva addosso.

Sono i legami, le relazioni, le ricerche di vie nuove e non battute ad avermi profondamente influenzata. In molti dei progetti immaginati Lei tornava, sottilissimamente: c’era sempre un’allusione al suo mondo, al suo modo.

I bambini che mi seguivano sapevano che prima o poi avrei ritirato fuori Lei, la mia sacerdotessa.

Da qualche parte avevo letto che Topipittori avrebbe pubblicato Il campanellino d’argento, tratto dalla storia La capretta. Ho atteso l’uscita del libro con molta impazienza e non senza una vaga paura di fondo. Come ci si poteva rapportare ad un libro – cucito, peraltro- che è frutto di un “sedimento di culture accumulate in millenni di esperienze collettive”? Come recuperare in un albo quel rapporto che Maria aveva con la propria cultura e il proprio passato,con la nonna che raccontava storie in quella lingua ritmata che è il sardo mentre rammendava lenzuola? Soprattutto, chi avrebbe raccolto il nastro blu, preparato da quella Jana dai capelli bianchi per farlo entrare nella propria vita?

Poi il libro è uscito.

Il campanellino d’argento, di Maria Lai e Gioia Marchegiani, Topipittori ph. Gioia Marchegiani.

Senza esagerazioni, l’ho amato all’istante.

Ho ritrovato Maria Lai e il suo pensiero. La lentezza del suo sguardo, l’audacia delle sue azioni, il rapporto profondo con la terra e la storia. Ho rivisto quell’ansia di precipizi che portava Maria sulle soglie dell’infinito.

Scrive Gioia Marchegiani, parlando del suo viaggio: «Dovevo immergermi nei luoghi della leggenda. Siamo stati a Ulassai, nell’Ogliastra, il paese natale di Maria Lai. In quei luoghi tutto parla di lei…Abbiamo passeggiato nei boschi che crescono sui versanti ripidi dei Tacchi, le montagne circostanti. Incontrato il disordine lasciato da vecchie frane. Attraversato il canyon. Perso l’orientamento e sbagliato e ritrovato il sentiero, più e più volte. Ho compreso l’intensità della luce, la profondità delle grotte, la vastità dei cieli. Dovevo raccontare tutto questo. Far passare il vento. Custodire il mistero.»

Gioia racconta di come non sia stato semplice, di come sia stato necessario arrampicarsi per poter capire davvero e quindi tradurre. Sentivo, ancora prima di saperlo, che anche per lei la relazione con Maria era qualcosa di vivo: l’incontro con la sua Arte aveva significato un passaggio importante, una liberazione profonda come quella dell’oca che il tocco della Magia riesce a liberare, portandola a spiccare quel volo proibito verso l’infinito.

Il volo dell’oca in Ulassaida Legarsi alla montagna a Stazione dell’arte, AD-Art Duchamp.

Per quegli strani intrecci della vita, poco dopo, Monica Monachesi mi chiese di immaginare un laboratorio per la Mostra Internazionale dell’illustrazione di Sarmede.

Per me, senza sapere quanto fossi legata a Maria, aveva scelto proprio Il campanellino. Maria stava tessendo…

Il giorno dell’inaugurazione della mostra, tra gli ospiti c’era anche Gioia.

Mi sento sempre in imbarazzo a presentarmi a persone di cui conosco l’opera, ho l’impressione di risultare una stalker fastidiosa. Mi sono fatta coraggio e l’ho fermata. Non so ricordare con esattezza ciò che ci siamo dette, ricordo che Gioia mi ascoltava con grande attenzione. Ma è in quel momento che ho capito che stavamo lavorando alla stessa cosa.

Più tardi Gioia mi ha ricordato una citazione di Maria: «L’opera d’arte è un tappeto incompleto in cui i fili si agitano nel vento. Chiunque può prenderne uno e continuare a tessere».

Maria Lai, Progetto per ordito. Fonte: Archivio Maria Lai.

A quel punto ho capito che il mio laboratorio doveva nascere da entrambe le opere: da quella di Maria, ma anche da quella di Gioia. Di nuovo, potente, l’immagine del nastro blu che dalle mani di Maria si snoda per attraversare la vita di Gioia e poi la mia.

L’immagine da cui sono partita è quel profilo che è montagna e volto assieme.

Gioia ha colto benissimo il senso: i dirupi di cui la Lai parla, sono quelli dentro di noi, le nostre debolezze, le fragilità. A mia volta, volevo che i bambini capissero questo prima ancora della trama della storia. La grotta dentro cui è nascosto il tesoro è ciò che abbiamo dentro.

Il campanellino d’argento, di Maria Lai e Gioia Marchegiani, Topipittori ph. Gioia Marchegiani.

Il nero dell’inchiostro che Gioia ha usato mi ha indicato la direzione: quella doveva essere la dominante. Poi c’erano quegli arbusti che tante volte ho annusato nelle mie lunghe passeggiate in Ogliastra. Sapevo di doverle inserire in qualche modo.

Ho camminato lungo le sponde del Meschio, il fiume su cui vivo: ho raccolto erba medica, ciuffi di coda di topo, spighe di lavanda, gli steli piumosi dell’erba della pampa e le ho legate a piccoli stecchini di bamboo. Quelli sarebbero stati i nostri pennelli.

Le erbe spontanee raccolte lungo il Meschio.

I pennelli.

Non sapevo se avrebbe funzionato, anche io stavo perlustrando terreni sconosciuti seguendo un’intuizione. Ho provato a intingere una spiga di lavanda nel vasetto di inchiostro e a dipingere usandola come pennello. Non solo funzionava, ma il profumo del fiore si sprigionava venendo a contatto con il liquido.

La prova: inchiostro e lavanda.

Ho ritagliato molti profili in un cartoncino denso, spesso e colore della terra: volevo che ciascuno scegliesse il proprio, che si riconoscesse, esattamente come avviene davanti all’opera d’arte. Quella sagoma ritagliata è diventata lo spazio entro cui muovere il pennello. C’è chi ha campito tutto di un nero denso, chi ha picchiettato l’inchiostro servendosi della corolla rotonda del trifoglio, chi ha striato la carta, muovendo spighe e foglie oblunghe.

È stato bello vedere come ognuno di loro si sia lasciato andare a una sperimentazione sempre più libera, restando però profondamente concentrato su di sé. Quando abbiamo liberato il foglio dallo stencil, alcuni dei profili erano netti e definiti, altri più mossi, meno precisi. Qualcuno ha accennato un bordo, qualcun altro ha usato quello spazio concluso proprio come una tela su cui comporre.

Bambini al lavoro: i profili si riempiono.

Su quel profilo, Gioia disegna una capretta. È piccolissima, quasi si confonde, sembra una sbavatura di inchiostro, se vista da lontano. Anche io sapevo di non poterne fare a meno, non potevo rinunciare al simbolo di chi procede fidandosi della fantasia.

Il campanellino d’argento, di Maria Lai e Gioia Marchegiani, Topipittori.

Ho fustellato tante caprette, riprendendole dai disegni di Maria. Se avessi avuto un po’ più di tempo avrei chiesto ai bambini di ritagliarle, ma, ancora una volta, mi interessava il simbolo, il pensiero che l’opera d’arte incarna.

Ognuno di loro l’ha cucita sul suo profilo con un filo blu, come quello che attraversò le case di Ulassai nella performance Legarsi alla Montagna.

La capretta in panno, pronta per essere cucita.

Filo azzurro e campanellino d’argento.

Al collo della capretta, infilzato nell’ago, un piccolo campanellino d’argento.

Maria Lai aveva ripreso la storia della capretta da un racconto di Salvatore Cambosu, dandole però un nuovo finale.

«Ebbe (il pastorello) la certezza che solo la capretta poteva mettere in fuga quei mostri, prese a chiamarla per tutta la montagna, accordò il ritmo del campanellino col battito del suo cuore disperato, finché l’alba si incendiò e la capretta tornò moltiplicata da tutti gli orizzonti. La montagna risuonò di ritmi. Nasceva la poesia.»

Non poteva che chiudersi così, il laboratorio.

Ho chiesto silenzio, l’ho ottenuto. I genitori presenti mi hanno confessato di essersi emozionati difronte a quello spazio privo di parole, densissimo di simboli. Al segnale convenuto, ogni bambino ha fatto vibrare la sua opera, agitandola nell’aria: assieme alle altre, ha cominciato a suonare. Ed è stata poesia.

 

Le opere finite.

Non lascio mai i bambini con cui lavoro senza un pensiero, un oggetto che ricordi loro l’esperienza compiuta assieme, ma, al contempo, permetta loro di ritrovarla di nuovo, in solitudine, senza il mio tramite. So di non essere fondamentale una volta che la porta si è aperta, che il sentiero si è fatto visibile. Maria lo aveva capito, i giochi, le leggende, i racconti altro non sono che modi per dare forma a quell’infinito che altrimenti ci sfuggirebbe e che i bambini maneggiano sempre con grande facilità.

Questa volta è stato un piccolo cartoncino ripiegato, della stessa carta marrone, grezza e ruvida ottenuta dai resti delle nocciole e legato con il nastro blu. Davanti una stampa a inchiostro di quella capretta che insieme abbiamo seguito, dentro, accanto allo schema per tessere la capretta, una dedica, mutuata dalle parole di Maria: “Siate pastorelli affamati di cielo”.

Dedica e schema di ricamo.

Il biglietto legato.

La capretta ricamata da mia madre seguendo lo schema.

Strumenti e simboli.

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