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Topipittori.it – Il visibile e l’invisibile

Il visibile e l’invisibile

[di Elena Iodice]

Non sono mai stata una temeraria. O meglio, lo sono se mi muovo in territori noti, lungo percorsi di cui, bene o male, conosco la direzione.

I primi tempi di questa “mia seconda vita” nell’Arte, usavo raccontare i miei progetti usando citazioni altrui. Cercare quelle giuste presupponeva una grande attività di ricerca, è vero, ma nascondeva anche un’insicurezza profonda, di cui, forse, non ero pienamente consapevole. Quelle parole non erano mie, altri ne avevano trovate di migliori, di più giuste di quelle che mettevo goffamente insieme io. Mi nascondevo, insomma. Fino a che un giorno, una persona molto cara mi consigliò di smetterla di usare parole altrui e di “uscire dallo sgabuzzino” in cui mi piaceva rintanarmi. Questa cosa mi spiazzò, passai giorni a ripensare a quelle parole che mi scavavano i pensieri come un tarlo. Dovevo prendere coraggio.

Arrivò presto l’occasione. Era in preparazione il Festival Tuttestorie e io dovevo preparare un laboratorio sul tema Terraterra. Mesi prima avevo salvato un’immagine (o così mi era parso, come constatai da lì a breve) che mi aveva molto colpito: da un albero disegnato a carboncino partivano radici ricamate su un pezzo di tela rada. Non era un problema, pensai facendo affidamento al modo scrupoloso con cui, normalmente, archivio ogni idea. Spulciai cartelle, album, archivi ma quell’immagine non c’era più. Era sparita. Sapevo cosa avrei voluto fare ma quel fotogramma rappresentava per me una sponda sicura dalla quale partire. Senza quel riferimento ero esposta. Non mi restava che appellarmi alla memoria, alle sensazioni che quell’immagine avevano suscitato dentro di me, alle visioni, al sentiero che mi aveva indicato. Dovevo uscire da quello sgabuzzino ben arredato e fare una cosa che sarebbe stata mia e solo mia.

Decisi, allora, che, questa volta quel progetto avrebbe dovuto raccontare di me.

Partii da una tavoletta di legno solo perché me la trovai tra le mani, residuo di altre prove, di più sicuri progetti. Provai a dipingerla e a disegnarci sopra un albero. Non sono brava a disegnare, ripeto spesso ai bambini che incontro, ma l’albero in qualche misterioso modo era uscito dalle mie mani. Avevo messo un piede fuori da quello sgabuzzino.

 

Dalla tavoletta di legno al disegno dell’albero.

Volevo, poi, che le radici fossero ricamate, che solcassero come fili una terra pastosa, colorata come le sezioni della cava vista a Milos in uno dei miei viaggi.

 

La cava di betonite ad Agia, Milos.

Perché mi ostino a lavorare con i fili? Perché tornano così spesso nei progetti che propongo? Potrei scrivere che ho fatto miei i principi della pedagogia montessoriana ma non è propriamente così. Certo, mi piace portare materiali inusuali tra le mani dei bambini, vedere come si muovono alle prese con una cosa così diversa dal pastello, dalla penna o dalla matita. Ma la verità è che io sono cresciuta tra i fili. Mia nonna aveva cassetti pieni di gomitoli con cui dava forma a presine e centrini multicolori e tra i giornali di gossip c’era un enorme catalogo della Mouliné: decine di matassine colorate erano allineate in gradazione cromatica ed io passavo le ore dentro quell’universo. Un po’ come è stato per Maria Lai, quello era il mio lessico familiare. Vedevo mia nonna, le mie zie, mia mamma costruire mondi partendo da quelle gugliate, progetti che sebbene io non riuscissi ad intuire, prendevano forma attraverso ferretti uncinati o aghi appuntiti.

 

Le mani di mia mamma sempre intente a ricamare.

Io ero incaricata di disegnare gli schemi, riempiendo di crocette fogli quadrettati. Ma gli occhi di mia nonna finivano, poi, per andare in autonomia così come le sue mani. Tutti, nella mia famiglia, maneggiavano aghi. I fili, potrei dire, fanno parte del mio patrimonio genetico.

Provai con un tessuto di cotone ma la sua superficie era troppo perfetta, troppo piatta. Volevo rimettere le mani nella terra, letteralmente, come quando da bambina costruivo torte di fango. É lì, in quel momento che Burri mi è venuto in aiuto con le sue jute, le muffe, i cretti. Quando gli chiesero perché lavorasse con materiali così poveri, il pittore umbro rispose che a lui interessava la Materia, quella solo. Riempirono le critiche di profondissime elucubrazioni, cercarono di trovare significati nascosti, simbologie occulte dietro al suo lavoro ma a tutto questo Burri rispondeva ridendo. A lui interessava capire come la plastica cola se bruciata, che superficie si forma spalmando una resina, che segni formano sacchi cuciti, che modificazioni cromatiche producono le muffe sulla tela.

 

Bianca sfoglia Burri, catalogo della mostra alla Triennale di Milano (Skira).

Ecco, era questo che interessava anche a me. Come sarebbe stato mettere in mano ad un bambino un pezzo di juta, ruvida, pungente? Poteva diventare terra, confondersi con essa come quei sacchi che proteggono le radici quando si pianta un albero? Chiesi a Diego, il mio amico pittore, come potessi arrivare a quell’idea, per me era tutto nuovo. Mi consegnò in cantiere un rotolo di juta secco, odoroso di fieno, leggermente scialbato di calce. Provai a dipingerlo con pastelli ad olio, tirati con le dita, spalmati, letteralmente sul supporto ruvido. Funzionava. Sporcava tremendamente ma funzionava.

 

La juta dipinta.

Ed ora bastava ricamare. Dal tronco le radici cominciarono ad allungarsi, secondo direzioni mai decise a priori: la rigidità del progetto, quello schema che da piccola disegnavo a crocette, cominciava a rompersi: la mano, come quella di mia nonna, andava da sola, il reticolo si componeva quasi in modo autonomo sulla tela.

 

Prove di ricamo.

Sapevo che non le avrei tagliate, questo sì. Volevo che pendessero dai bordi del disegno come i fili dei libri cuciti di Maria, che si allungassero alla ricerca di ciò che non può stare chiuso dentro i bordi, che si trova al di là di essi, chiedendoci di uscire ed affrontare l’ignoto.

 

Bianca alla mostra A proposito di Maria Lai presso la Galleria M77.

Ecco, lo avevo tra le mani.

 

Prototipi.

Quel progetto sparito nei meandri dei miei archivi ora aveva preso forma ed aspettava di essere portato fuori, nel mondo.

Come presentarlo, però? Come raccontare ai bambini i percorsi artistici a cui quel pezzo di legno e quel brandello di juta alludevano? Servivano parole, serviva una storia. Se c’è un imperativo nel mio lavoro è quello di non raccontare fandonie ai bambini: la storia dell’Arte va proposta così com’è, senza trasformare quelle che furono complesse esperienze umane in storielle da rinchiudere in libretti (i due vezzeggiativi sono intenzionali). Parto spesso dalle parole, dalle testimonianze di chi, quel percorso, lo ha compiuto per primo. Spesso leggo stralci di biografie, di racconti, quando ci sono, uso albi illustrati per accompagnare sulla soglia dell’Arte i bambini con cui lavorerò. Ma questa volta un testo non c’era. Avrei dovuto raccontare di Maria Lai e poi di Alberto Burri che, per la piega che aveva preso il lavoro, erano i due riferimenti più prossimi dietro quel progetto. Ma questo rischiava di confondere più che chiarire.

E poi non avevo deciso a priori che sarebbero stati loro a parlare: non intendevo fare l’ennesimo lavoro su Maria Lai o evocare Burri attraverso l’uso di uno dei suoi materiali. Le connessioni erano arrivate dopo. Questi due artisti, le loro opere, per motivi diversissimi, mi parlano, mi emozionano. C’è una ragione? Forse: potrei scomodarmi a cercare connessioni e di certo le troverei. Ma è più probabile che parlino un linguaggio che io riesco a capire, lascino segni che io riesco a decifrare. Ed è normale che, una volta esposta a fare una cosa mia, quelle voci tornino a farsi sentire. Sono il pane di cui mi sono cibata, gli orizzonti che amo osservare. Sono artisti che, per ragioni diverse e non sempre spiegabili, hanno influenzato la mia vita, ponendosi ai crocicchi dei percorsi che ho seguito. È per questo che mi piace parlarne, evocarli attraverso il mio di lavoro. Perché per me hanno significato qualcosa.

Ma come parlare di loro senza voler essere didascalica? Come suggerire la loro presenza in modo sottile, in filigrana? Come, soprattutto, farli incontrare? Quello che non è stato possibile nella realtà, viste le esperienze artistiche profondamente diverse, poteva esserlo nella finzione. Il racconto non è lo spazio dove tutto è possibile?

«L’uomo ha bisogno di mettere insieme il visibile e l’invisibile perciò elabora fiabe, miti, leggende, feste, canti, arte.» (Maria Lai)

Ed ecco allora prendere forma un racconto, uno spioncino su quelle due vite, quelle esperienze passate tra fili e sacchi e muffe e tele.

 

I materiali di Maria Lai e Alberto Burri.

Questa volta, le parole non dovevano essere mie. Recuperai brani, interviste, scritti dell’uno e dell’altra e, pazientemente, cominciai a cucirle assieme. Se volevo essere autentica, dovevo rimettermi da parte e lasciare parlare loro.

Il racconto inizia così.

C’era una volta una vecchina.

Era piccola, magra, ossuta ma con mani veloci ed occhi vivaci.

Viveva in “un’isola a forma di piede” così aspra e selvaggia che se l’aveste vista da lontano vi sarebbe apparsa come un grande cumulo di pietre e cespugli spinosi, di grotte e cavità.

Saliva su quelle rocce come “una capretta ansiosa di precipizi” e, in silenzio, cominciava a giocare. Era quello il suo lavoro. Giocava con grande serietà, creando cose così semplici che nessuno capiva. «È un po’ matta» si cominciava a dire di lei ma a Maria questo non importava. Chi la cercava sapeva di poterla trovare lassù, seduta su una roccia, all’ombra di un ginepro, intenta a spostare sassi, osservare il vento o annodare tra le dita veloci uno di quei fili di lana che riempivano le sue tasche.

«Che cerchi quassù, Maria?» la gente le domandava.

«Chi aspetti?»

«Aspetto le Janas, le fate. Loro “raccolgono briciole di infinito e le consegnano nelle mie mani perché possa conservarlo”

«L’infinito, Maria?! Ma di cosa parli?»

«Come si può spiegare l’infinito…» rispondeva lei, ritornando subito ai suoi giochi silenziosi.

Il tempo passava, la gente finì per pensare che matta lo fosse davvero ma Maria aspettava paziente.

 

Una delle carte di Maria Lai alla mostra Tenendo per mano il sole (Maxxi, Roma).

Un giorno mentre dialogava tra sé e sé, le parve di scorgere un luccichio tra le radici di un vecchio olivo.

Si alzò, ripose i fili nelle tasche e cominciò ad arrampicarsi tra le rocce, incurante del vento che sferzava ogni cosa.

Quel lumicino pareva muoversi, volerla condurre verso un punto preciso, appena sotto il tronco del vecchio albero.

Nell’immaginarmi la scena, vidi Maria scendere, entrare in quella cavità e avventurarsi in quella profondità in cui le radici degli alberi ricamavano trame infinite. Fino a quando…

Fu dopo aver percorso un centinaio di passi che lo vide.

Seduto per terra, l’aria seria e concentrata, c’era un uomo. Lavorava alla luce di una candela e in modo metodico e precisissimo, scavava con una piccola pala il suolo della radura sotterranea che, in quel punto, la galleria formava.

Maria si mise una mano in tasca e, stringendo i fili, si schiarì la voce per farsi notare.

L’uomo si voltò, la guardò per un attimo, la salutò cortesemente e poi si rimise al lavoro. Maria avanzò e si sedette un poco di lato.

«Sasso terra\terra sasso\la radice\trova passo. Vago sogno\si fa sasso\duro sasso\si fa sogno» disse Maria dopo un tempo che le era parso eterno, recitando una delle storie che inventava nel mondo di lassù.

Alberto si fermò. Posò la paletta sulla terra, e si voltò per osservare la vecchina.

«Sole sale\verticale\nello spazio\delle stelle\sul pianeta sbigottito\respirando l’infinito.» continuò Maria.

La durezza dell’uomo sembrava essere stata scalfita dalla filastrocca di Maria. Fu così che iniziò a parlare: «Io vedo la Bellezza e basta. E la Bellezza è bellezza che sia un pugno di terra, un sasso, una muffa o altro. È uguale, ugualissimo. Io raccolgo solo questa bellezza e cerco di renderla visibile. Un giorno, tanti anni fa, facevo il dottore. Questa terra, questi sassi, questa juta sono i materiali con cui dò forma al Mistero. Io non faccio nulla, li dispongo, cerco un equilibrio. È già tutto lì.»

«Questa è la mia poesia. E come posso spiegare la poesia?».

Detto questo si rimise al lavoro, ricominciando a scavare.

Maria si sedette al suo fianco; tirò fuori il gomitolo di fili che teneva in tasca e ricominciò a giocare.

Il racconto finisce così. È subito dopo che il laboratorio può avere inizio. Le mani cominciano a muoversi: disegnano, impastano, ricamano.

 

Mani al lavoro.

Una foresta nasce, da piccoli pezzetti di compensato e brandelli dipinti di juta. Maria Lai e Alberto Burri restano lì, dietro le quinte. Dall’attenzione che hanno prestato al racconto capisco che i bambini hanno capito che si tratta di storie vere ma quello a cui, ora, stanno dando forma è un pezzetto di sé. Proprio come prima era successo a me.

 

Radici di filo, terra di sacco.

Tra tutti i bambini incontrati, in quell’isola a forma di piede e nella libreria che mi fa da casa, qui a Vittorio Veneto, spicca la voce di Elia. Alla domanda «Ma perché non li tagliamo questi fili? Perché li lasciamo penzolare fuori dal bordo?» Elia rispose: «Perché come Maria cercano l’infinito.»

 

Dal libro Maria Lai. Arte e relazione di Elena Pontiggia (Ilisso, 2017).

 

«L’essenza dell’arte è riserbo infinito. Non tocca molto ma quello che tocca diventa incandescente, si capovolge, si scioglie, si espande.» Foto dalla mostra A proposito di Maria Lai (Galleria M77, Milano).


Breve bibliografia:

Maria Lai – Arte e relazione, di Elena Pontiggia (Ilisso, 2017)

Alberto Burri, catalogo della mostra a La Triennale di Milano (Skira, 2008)

Parola di Burri – i pensieri di una vita, di Stefano Zorzi (Mondadori Electa, 2016)