07 Lug L’arte libera tutti su PRENDIAMOCI UN CAFFÈ – I luoghi del welfare nel Programma Welfare in Azione – CODICI
Il laboratorio artistico che verrà sarà fatto in un’aula enorme, con grandi finestre dalle quali entra tanta luce.
Da un lato ci sono grandi tavoli ma una parte della stanza è libera. Ci si può muovere liberamente, nulla impedisce di percorrere lo spazio con gli occhi e con il corpo. Appese alle pareti opere di artisti e di bambini, mescolate. Si potrà fare rumore, nessuno si lamenterà. Non ci saranno orari, solo un tempo massimo.
In una stanza, lì accanto, ordinati dentro scatole, tutti i materiali utili. Non serve chiedere autorizzazioni, fondi, finanziamenti, tutto quello che ci serve è lì.
Alle pareti una biblioteca piena di testi sull’Arte.
I bambini arriveranno, sapendo che il primo momento è il più importante. Sapranno come entrare in quell’esperienza, capiranno il senso del rito e del passaggio. A sostenere il percorso non solo chi conduce il laboratorio, ma anche le maestre, divenute soggetti attivi dopo anni di esperienza. Sarà uno spazio aperto a tutti, privo di giudizio e di senso di inadeguatezza, dove l’imperfezione è normale e di tutti, perché nel laboratorio non esiste l’errore e se c’è si trasforma.
Eppure, vige un grande rigore, ogni incontro è lungamente preparato da chi conduce, si parte dagli artisti, dalla conoscenza profonda della loro vita, dalla lettura di appunti, lettere, taccuini in prima persona, per farli sentire vivi, per conoscere i testi originali. I bambini ascolteranno, leggeranno, guarderanno, senza nessuna consegna di rifare le opere o imitare la tecnica, ma solo di provare a sintonizzarsi su quel percorso, di far risuonare quelle suggestioni dopo l’incontro con quelle vite. L’immersione in quelle storie rende possibile il racconto della propria. Maria Lai diceva che “crescere è rompere un guscio dopo l’altro”.
Il grande nemico che sarà sconfitto è la paura, quello è il guscio. Finalmente non ci sarà più la paura dei bambini di andar fuori dai margini e di non seguire la traccia, non ci sarà più quella delle maestre di uscire dal programma, di perdere tempo rispetto ai test e agli esami previsti o di non trovar l’adesione del dirigente. Non ci sarà nemmeno la paura della società di perdere tempo, associando all’arte la valenza di pratica improduttiva, di lusso o svago per pochi. Si romperà anche l’altro guscio, in apparenza opposto al primo, il desiderio molto attuale di essere riconosciuti, di piacere e compiacere.
Il senso e la misura non verranno dal gradimento – anzi, sarà forse più importante disturbare che riscuotere consenso – ma dall’apertura di possibilità inedite, dall’accesso generato a risorse personali che prima non si vedevano.
Il primo a dover rompere il guscio è proprio chi conduce, che deve credere al potere liberatorio dell’arte. A quel punto, se tu rompi il guscio, consenti ad altri di romperlo, il superamento della paura dell’inadeguatezza, dei limiti, della possibilità è contagioso.
Ma la comunità non accoglierà subito la sfida, all’inizio ci sarà molta perplessità, ci saranno grandi dubbi, si fideranno in pochi. In una scuola puoi trovare magari un’insegnante che ti segue, un’occasione, una richiesta: è l’apertura di una crepa, momento fondamentale per spingere e promuovere il cambiamento. I bambini saranno i primi a cedere, si lasceranno conquistare, perché sanno che non saranno giudicati, sono solo lì per raccontarsi e sono pronti a farlo senza remore.
Poi toccherà alle famiglie: i genitori cominceranno a sentir parlare a casa delle cose che accadono e potranno restare sorpresi di fronte alla trasformazione dei figli, perché alcuni fra loro ritenuti incapaci scopriranno, una volta lasciati liberi di esplorare, che il disegno è solo un modo per raccontarsi, per scoprire qualcosa di sé che non conoscevano. E gli adulti stessi seguiranno, si lasceranno andare e scopriranno altrettanto in loro stessi.
Potrà anche capitare che quegli stessi bambini si troveranno a colorare fotocopie di quadri famosi perché la scuola continua con queste prassi, ma a casa torneranno a quella libertà che hanno conosciuto, il processo sarà irreversibile.
Come mi ha scritto una volta una bambina: “Non avrei mai pensato, se non ci fossi stata tu, che l’Arte potesse entrare in me, o meglio che io potessi entrare nell’Arte. È come se ci avessi indirizzato verso un grande vortice che avesse risucchiato noi tutti e che non ci facesse più uscire”.
Questo percorso sarà per forza su scala comunitaria, non potrà avvenire per grandi gruppi, non avverrà per l’innesto di una nuova materia nei programmi scolastici ma accompagnando uno alla volta i gruppi ad aprirsi a quelle possibilità espressive.
Non si tratta solo di laboratori artistici, per bambini, fatti a scuola. Con gli adulti è e sarà lo stesso, l’esito che si produce è identico, forse solo meno immediato, perché più filtrato da pregiudizi, difese, abitudini. Certo, se fin da bambini avremo la possibilità di frequentare biblioteche, librerie, musei, di girare il mondo in cerca di stimoli, di dialogare, ragionare e misurarci su questi temi, sarà tutto più facile. E non si tratta solo dell’arte, l’arte è un pretesto. Puoi parlare di qualunque cosa, come diceva Munari aprendo la mente alla divergenza e agli interrogativi, non dando per scontato nulla, quale che sia il campo. Ma l’atteggiamento da cercare è proprio quello del bambino di fronte all’opera d’arte, che non ammira a priori perché gli è stato detto a scuola che quello è un capolavoro, che non riduce la complessità o l’astrazione declassandola a scarabocchio, ma che sospende il giudizio e si interroga sul perché di ogni dettaglio.
Alla fine, l’arte è un medium di relazioni, con se stessi in primis e con gli altri, cioè esercita una funzione che potrà essere svolta da tante altre cose. Se l’arte e gli altri modi di aprirsi al mondo saranno riconosciuti, la comunità sarà più aperta. La storia dell’arte è storia di artisti, cioè di biografie cariche di passioni e sofferenze, di fatiche e divergenze dal senso comune, di cadute ed evoluzioni, cioè di un’idea di uomo plurale, imperfetto, in continuo cambiamento, mai risolto. E di fronte a un’opera non puoi precipitare alle conclusioni, ma devi sospendere il giudizio, interrogarti, provare a cono- scere meglio, chiederti il perché, osservare bene, per stabilire una relazione possibile fra te e l’opera.
Una città di persone così aperte sarà una città dell’in- contro. Con la cura e la bellezza, ma anche con la possibilità dell’esercizio critico, del dire “non mi piace, non sono d’accordo”. Con la libertà d’espressione, senza l’ossessione del controllo, dell’apprendere la tecnica, dello stare nei margini. Con se stessi, nella varietà dei sé scoperti attraverso quella libertà espressiva. Con gli altri, rispettati e riconosciuti nella loro singolarità, come ogni opera d’arte.